lunedì 13 aprile 2020

I lieti giorni del Corona (20)

I lieti giorni del Corona (20)

Diario semiserio

Una collega mi ha fatto notare che nell’ultima puntata del diario, quella del giallo per capirci, c’era una battuta leggermente sessista: quando il Commissario entra nella casa dell’assassino, vede il bagno in disordine e connette ciò all’assenza di una donna nell’appartamento. È la stessa collega che mi manda i messaggini con le correzioni, mi sottolinea i refusi, le maiuscole mancanti, insomma… è una donna cattiva. Lei sembra gentile, dolce, la più dolce di tutta la scuola ve lo assicuro, ma sotto sotto, soltanto io lo so veramente, ha una cattiveria subdola, che esercita grammaticalmente e sintatticamente. Detto questo, ho provato a difendermi, dicendole che il mio non era sessismo, ma solo una constatazione di incapacità a fare determinate cose: in poche parole senza mia moglie in questa casa saremmo persi, vivremmo allo stato brado; chi ci ricorderebbe come una sirena di allarme, “Lavatevi le mani!!!”? Noi non ci laviamo le mani per paura del virus, ma ci laviamo le mani per paura di lei!
La collega ribadisce che determinate cose si possono imparare. Eccomi qui, allora, a farvi qualche esempio sul fatto di essere in materia di faccende domestiche un alunno refrattario ad ogni forma di addestramento. Mia moglie ha tentato, ve lo garantisco, ma prima di lei tentò mia madre, e voi tutti avete conosciuto mia madre, anche solo attraverso le pagine di questo diario. Stiamo parlando di una donna potente, di una donna per la quale “arrendersi è viltà”, di una donna che non si pone limiti, che riesce ad intrattenere due o tre conversazioni telefoniche contemporaneamente. Lei ci ha provato in tutti i modi. Da piccolo, il primo tentativo fu di farmi lavare i balconi alla modica cifra di cinque mila lire l’uno. Il risultato era che alla fine mio padre aveva meno soldi, io un salvadanaio più pieno e mia madre doveva lavare i balconi nuovamente. Non mi pagarono più, io non ebbi il coraggio di protestare, il servizio con tanto di pagamento al metro quadro venne appaltato agli altri fratelli. Successivamente ci fu un’altra serie di tentativi, dalle pulizie domestiche alla cucina, quasi tutti falliti miseramente. Dico quasi perché mia madre riuscì ad ottennere qualcosina attraverso la gola: impanare delle cotolette ad esempio, ancora ricordo la sensazione tremenda del tuorlo dell’uovo che mi colava tra le dita, tipica del criptoautistico che c’è in me; oppure contribuire alla creazione del semifreddo alla gianduia, chi non conosce mia madre non può capire, si tratta della sua creazione culinaria regina, la sua non è la classica mattonella, ma una specie di opera edilizia di pura bontà, per la quale è necessario pagare ogni volta l’Imu. Ecco, queste cose le so fare e posso affermare di avere una discreta specializzazione in frittura, ma solo in quello. Crescendo, aumentò in me anche l’idea di responsabilità, oddio responsabilità, un minimo di senso di colpa, o forse un piccolo formicolio alla coscienza. Mia madre nel frattempo aveva provato ad insegnarmi a stendere la biancheria. Anche lì, solitamente era costretta a ripetere l’operazione per il 30-40% dei panni messi ad asciugare al sole (mia moglie, oggi, fa la stessa cosa per quelle rare volte che mi occupo io di applicare le mollette sullo stendino). Ecco, tornando a quel leggero prurito di sensibilità verso le fatiche della genitrice, una mattina di giugno, non c’era scuola, decido di prendere l’iniziativa: apro l’oblò della lavatrice, metto tutto nella bagnarola e stendo la biancheria. Mia madre sarà fiera di me, pensavo. Al suo ritorno dal lavoro, per caso va in balcone e rientra sconvolta chiamando mio padre: “Felice, dobbiamo portare Fabio dal neurologo, te l’ho detto che c’è qualcosa che non va in lui”. Fabio è mio fratello più grande, per tradizione e costituzione quello che sa fare e fa le faccende di casa. Mia madre era convinta fosse stato lui, come le altre volte, a stendere la biancheria. Io nel frattempo restavo nella mia stanza all’opre maschili intento.
Perché, cos’ha fatto Fabio?”, chiede mio padre, per nulla scosso dal riferimento al neurologo; considerate che per mia madre è il tipo di specialista adatto a tutto: hai il mal di stomaco? Neurologo. Zoppichi di un lato? Ci vuole il neurologo. Dici le parolacce? Neurologo.
Cosa ha fatto? Esco fuori in balcone e sento una puzza tremenda. Ma da dove viene ‘sta puzza, ma cos’è ‘sta puzza, mi sono messa a cercare… mi sono avvicinata allo stendino e lo sai che ha fatto? Ha steso i vestiti sporchi! Non si è accorto che facevano cattivo odore e li ha stesi… per forza, c’è qualcosa che non va in lui”.
Nella mia stanza arrivava il suono delle voci, ma non riuscivo a percepire il nocciolo della questione; sentivo litigare i miei con mio fratello Fabio e, secondo lo stile di sopravvivenza da famiglia numerosa ormai consolidato in me, in questi casi meglio farsela alla larga, perché incappi in due possibili alternative, entrambe deleterie. La prima, è quella di essere accusato anche tu, secondo il principio di colpevolezza collettiva dei figli (anche chiamato principio di sintesi educativa: colpire tutti per educare tutti). La seconda è che tua madre venga come una furia nella tua stanza chiedendoti: “Hai sentito? Secondo te, chi ha ragione? Io o tuo fratello?”, ed il problema è che non ti puoi avvalere della facoltà di non rispondere.
Tornando a noi, la discussione in cucina ferveva, Fabio si discolpava di non aver fatto nulla, i genitori ci credevano e non ci credevano. A un certo punto gli hanno voluto dare una chance. Mia madre chiede a voce alta: “Scusate… venite qua! Chi ha steso la biancherista stamattina?”.
Esco allora dalla mia camera, come avvolto da luci teofaniche, pronto a manifestare la mia novella bontà di figlio capace di gestire le faccende domestiche, maturo e disposto a sollevare la madre dal peso quotidiano senza nemmeno aver ricevuto un ordine, ero un San Giorgio a cavallo che aveva sconfitto il drago: “Sono stato io!”, dico sorridente, pronto a ricevere l’apprezzamento morale in eterno.
Non mi hanno portato dal neurologo poi, si sono arresi alla mia evidente incapacità, la diagnosi per loro è stata chiara ed inequivocabile.
Eppure chissà, forse un neurologo avrebbe potuto spiegare tante cose…

Maurizio Colucci


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